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  • 7 dicembre 2018

Il Baritono Roberto Frontali …..un Rigoletto che sussurra

Il baritono Roberto Frontali all’Opera: «Con Gatti sono un Rigoletto che sussurra»

Lunedì 3 Dicembre 2018 di Simona Antonucci

Roberto Frontali in scena al Teatro dell'Opera di Roma nei panni di Rigoletto

È arrivato nel coro del Teatro dell’Opera di Roma, passando per l’Università La Sapienza. E ha debuttato sul palcoscenico del Met di New York dopo una laurea in Economia e Commercio. È da romanzo il percorso che ha portato sulle scene internazionali il baritono Roberto Frontali, romano, 60 anni, una carriera in giro per il mondo («sempre cercando di portarmi dietro mia moglie e i figli») e una passione per il teatro della sua città, il Costanzi, dove dal 2 dicembre è il Rigoletto che inaugura la stagione, accanto al soprano statunitense Lisette Oropesa, («una Gilda toccante»).
Sul podio il maestro Daniele Gatti, regia di Daniele Abbado, repliche fino al 18 dicembre

Ha scelto un tragitto bizzarro e originale per diventare cantante lirico.
«Ero nel coro polifonico dell’università, mentre studiavo Economia. Un giorno il maestro mi affrontò e mi disse: sfori sempre, prova al Conservatorio, qui non va. Fu mia moglie a convincermi e mi iscrissi al Conservatorio. Ma nel frattempo continuavo alla Sapienza. Per un lungo periodo, prima di entrare nel coro del Teatro dell’Opera, il mio primo contratto, facevo colloqui nelle banche e provini ai concorsi di canto. E poi il Met, Parigi, La Scala».

Rimpianti? Hai mai pensato che forse dietro una scrivania si sta più comodi?
«Magari ora lavoravo con Draghi. Scherzo. No, rimpianti, no. È stato tutto molto casuale. Anche se la passione per la musica è sempre esistita. Cantavo fin da ragazzino, un po’ di tutto. E infatti, più che a una mia ipotetica carriera economica, penso a quanti colleghi, bravi, hanno provato ad arrivare in un teatro e si sono ritrovati, invece, dietro una scrivania a fare altro».

Lei è stato Rigoletto decine di volte. Che uomo è?
«Un padre. Prima di tutto. Una figura che Verdi, forse anche per le sue sofferte vicissitudini familiari, ha esposto e proposto al pubblico molto spesso. Ma è anche una maschera: con la sua doppia faccia che piange e ride, Rigoletto per me è l’essenza del teatro».

Un papà difficile.
«Li unisce un amore non sano. Malato, come è malato lui. Sono legati, ma condannati all’impossibilità di comunicare. Lui non può svelare alla figlia la sua identità e Gilda non riesce a confessare al padre il suo amore. Ci sono dei “muri” anche musicali tra loro. E in scena sono resi in modo molto suggestivo. E moderno».

In scena non ha la classica gobba.
«La deformità in questo spettacolo è interiore. Rigoletto ha la gobba quando è a corte. Ma non quando è con se stesso. E quindi la malattia va simulata, parte dalla testa. Abbiamo fatto un lavoro molto introspettivo e sarà un Rigoletto veramente innovativo, proprio perché torna alle origini».

Innovazione con una scelta filologica?
«Il recupero filologico proposto da Gatti non è fine a se stesso, ma drammaturgico. Per noi cantanti è stato come ricominciare da capo. Questa volta il direttore d’orchestra e regista hanno lavorato l’uno accanto all’altro fin dall’inizio, seguendo insieme i cantanti. Rigoletto, che è considerato un po’ il torero della lirica, come Figaro, qui a volte sussurra. Veloci e inusuali anche i tempi, ispirati più al metronomo di Verdi che a quello delle abitudini. Un percorso toccante, entusiasmante, faticoso, ma assolutamente contemporaneo».

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